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domenica 19 gennaio 2014

La folie Almayer

Paludi definitive

Una casa nuova ma già fatiscente, una figlia tanto amata, Nina, che lo disprezza con tutto il cuore, un fiume placido ma capace di brutale e inusitata violenza. Questa le coordinate della vita di Almayer, i segni visibili del suo fallimento. Dove era finito il suo sogno di ricchezza e di potere, quella illusione che gli aveva reso sopportabili anni e anni di amarezze, di rimpianti, di frustrazioni? Dove era finita la ricchezza che aveva sempre sentito a portata di mano, ma che ogni volta gli sfuggiva via quasi fosse trascinata dalla corrente fangosa e tumultuosa del grande fiume? Sì, la vita di Almayer è stata un vero doloroso fallimento che neanche la presenza di Nina, seduta adesso accanto a lui, riesce ad alleviare.


Questo film, proprio come il povero Almayer, ha qualcosa che non va. Sfugge, cerca la chiarezza ma finisce per trovare le tenebre; molti sono i particolari importanti tralasciati, tante le lungaggini che infastidiscono. Non si capisce bene, ad esempio, cosa trattenga Almayer nella sua capanna sul fiume dopo la morte del suo "mecenate".
Nonostante tutto,  però, è pur sempre un film che affascina, soprattutto per le bellissime immagini di una natura quasi incontaminata, ostile; una natura che sembra ignara del male, ma che probabilmente è il male stesso, la Wilderness  innanzi alla quale l'uomo non può che inchinarsi e smarrirsi come istupidito da cotanta sconvolgente potenza.
In fondo, è lo scenario consueto dei romanzi di Conrad (e di tutti i film tratti dai suoi libri), uno scenario in cui i suoi personaggi si muovono come marionette impazzite. Si agitano in modo convulso, improvvisando un balletto senza senso, come un vorticare di foglie al vento.

Arrivederci a marzo (se non mi perdo anch'io in una palude)


7/10   La folie Almayer
(2011) on IMDb



venerdì 10 gennaio 2014

Zhit (Living)

A voi, che mi mancate tanto!

Un luogo imprecisato della Russia, oggi. Neve a perdita d'occhio, un sole pallido che non riesce a venir fuori da una spessa coltre di nebbia. Un uomo a capo scoperto avanza a fatica. Ha i vestiti a brandelli, le scarpe logore e piene di buchi. Si dirige senza esitazioni verso un ponte, caracollando. Più oltre, il paesaggio, perlaceo e misterioso, si perde nella bruma. Poi l'uomo scompare. Dissolvenza.


Una donna tutta intabarrata spinge con decisione nella notte gelida uno slittino. Dentro vi sono due bambine avvolte da una pesante coperta. Solo gli occhi vengono fuori.  Sono spenti, senza luce. Un sobbalzo che smuove la trapunta fa in modo che si vedano i volti delle bambine. Sono segnati da profonde e recenti cicatrici. Tutto intorno nessun segno di vita umana. Anche la luce del mattino incipiente si è abbassata fin quasi a svanire del tutto. Poi la donna con il suo macabro carico scompare. Dissolvenza.


Tre storie che si intrecciano. Un comun denominatore: il lutto o, meglio, il tentativo di elaborarlo. Si sa, ognuno tende a superare una tragedia a modo suo, e non sempre ci riesce. Non è mica facile. Spesso si scelgono strade impervie, sentieri non tracciati, vicoli ciechi. Quando si ci trova in simili momenti è come brancolare nella nebbia, con gli occhi sbarrati, la gola secca e il fiato mozzo. Per uscire da questo impasse, proprio come ne "Il terzo poliziotto", una bicicletta può aiutare.

In definitiva, Zhit mi è sembrato un grandissimo film e bene ha fatto Frank ViSo ha inserirlo nella sua classifica dei migliori film dell'anno. Non posso che ringraziarlo, per l'ennesima volta.

8,5/10  Zhit
(2012) on IMDb


martedì 7 gennaio 2014

Jîn

Jîn delle montagne

Una delle ultime foreste del Kurdistan turco, oggi. Felci che ricoprono il sottobosco con le foglie srotolate a cercare la luce, nell'aria stormi di alzavole in parata in una posizione tale da sembrare un lenzuolo sfilacciato al vento. Una lucertola si arrampica su una roccia, spaparanzandosi al sole, beata. Una testuggine avanza lenta tra l'erba, il carapace umido per la rugiada. Un paradiso, insomma. Ma all'improvviso rumori di spari, scoppi di granate, crepitii di mitragliatrici: un inferno. Il bersaglio della sparatoria è un drappello di "guerriglieri" che fugge cercando riparo tra le rocce.


Esplosioni. Un fumo acre si alza verso il cielo terso. Jîn corre a perdifiato schivando proiettili. La ragazza, trovato rifugio in una provvidenziale grotta; ancora tremante tira fuori da uno zaino un pezzo di pane e delle mele. All'improvviso sgrana gli occhi per la paura e imbraccia un fucile. Un orso si è accucciato vicino, cercando riparo sotto una roccia. Ruglia, terrorizzato. Jîn posa il fucile e sorridendo gli lancia una mela. Poi, prima di allontanarsi, saluta: "Addio, compagno".


Ennesima conferma di un autore dal talento cristallino. Dopo Kaç para kaç, Beş Vakit, My only sunshine e, soprattutto, Kosmos, il regista turco sforna un film meno fantasioso ma di assoluto pregio. Le tematiche rimangono sempre le stesse (rapporto indissolubile tra uomo e natura, protagonisti orfani  alla ricerca di una identità, di un futuro migliore e idealizzato), ma Jîn mi è sembrato, rispetto ai precedenti, un film più lineare, meno oscuro o simbolico. Forse anche un po' didascalico. Questo probabilmente per l'argomento trattato: la violenta repressione turca nei confronti delle popolazioni curde. Il dramma di questa gente, con una propria lingua, una cultura secolare e una identità etnica radicatissima, viene fuori come un pugno solo grazie alle immagini. Senza che ci sia bisogno di spendere una sola parola a proposito. Magie del cinema.

8/10  Jîn
(2013) on IMDb

lunedì 6 gennaio 2014

Il caso Kerenes

Nebbie

Bucarest. Una ricca casa borghese, gente elegante e distinta partecipa alla festa di compleanno di Cornelia Kerenes, un architetto sessantenne ben introdotto nella società che conta. Atmosfera rilassata e ridanciana. Sulle note di "Meravigliosa creatura" la festeggiata balla con il marito. Non è certo un modello di grazia né di eleganza, è rigida come uno stoccafisso, ma la cosa che si nota di più è il suo sguardo autoritario, arrogante. E un sorriso che sembra finto, come di cartone.


Stazione di polizia, periferia di Bucarest. Interno disadorno, anonimo. Una donna piange sommessamente. È seduta scomposta su di una panchina. Ha accanto due bambini. Piangenti. Entrano due donne, intabarrate in costose pellicce. Entrambe parlano animatamente al telefonino, non facendo minimamente caso a chi sta loro intorno; si dirigono verso una porta parzialmente socchiusa. Una delle due donne è Cornelia. Ha appena saputo che il figlio ha travolto e ucciso con la sua auto un ragazzino. E adesso lo stanno interrogando. Forse lo condanneranno. Cornelia è decisa a smuovere mari e monti, anche a fare  un patto col diavolo, perché questo non accada.


Dalla Romania un altro ottimo film. Il dramma che sconvolge la vita di una ricca famiglia borghese è reso benissimo. Lo scavo dei caratteri è meticoloso, la sporcizia morale della società vien fuori come uno schiaffo. Nessuno ne è esente.
Ma è Cornelia, il suo personaggio, il fulcro su cui gira tutto il film. È talmente vera, con tutte le sue contraddizioni, con tutta la sua forza, la sua arroganza, il suo carisma, che sembra quasi di vederla uscire fuori dalla sceneggiatura e, come un personaggio di De Unamuno, discutere con il regista. Imponendogli le sue decisioni.
Orso d'oro a Berlino 2013

8/10    Pozitia copilului
(2013) on IMDb


domenica 5 gennaio 2014

Upstream color/Magic Magic

Confronti (e incomprensioni)


Upstream color

Kris è manipolata da loschi individui. Viene drogata e costretta ad ingerire strane larve che alterano la volontà. I parassiti hanno cicli vitali complessi e per svilupparsi devono passare da un ospite all'altro. In questo caso l'ospite intermedio è il maiale. Kris è annientata, la larva ha completamente manipolato la sua coscienza. La sua vita è in serio pericolo. Ma, quando sembra che non ci sia più nulla da fare, incontra per caso uno strano individuo che la convince ad operarsi, sostituendo parti del suo corpo con quelle di un maiale. Forse lo stesso maiale che è stato prima parassitato dalla malefica larva.



Magic magic

Alicia è una ragazza introversa, timida, una a cui la sua stessa ombra risulta a volte troppo pesante. Non si sa come, ma si lascia convincere a lasciare il suo paese e ad andare in vacanza in Cile con sua cugina e i suoi amici. Prima ancora di raggiungere la meta del viaggio (una affascinante isola nel sud del paese) viene abbandonata dalla cugina. Trovatasi sola, comincia ad allarmarsi. Tutto la disturba, non riesce a dormire, ha visioni inquietanti. Gli succedono fatti strani. La situazione precipita dopo una seduta di ipnosi.



Due film ermetici, astrusi, cervellotici, impenetrabili eppure affascinanti. A loro modo.

Dopo Primer (2004), film contorto, logorroico, un puzzle spesso incomprensibile sui paradossi dei viaggi del tempo, Carruth ha atteso ben 9 anni per produrre questo Upstream color. Ed è riuscito a sorprendere. Ha lasciato da parte la parola ed ha costruito un film sulle immagini e sui suoni. È rimasto cervellotico e astruso, certo (deve essere nella sua natura), ma ha costruito un altro film che attrae. Un'opera che si rivela pian piano: all'inizio è assolutamente incomprensibile, ma a poco a poco le nebbie cominciano a diradarsi. Fino ad un certo punto. È, insomma, uno di quei film in cui tutto risulta convincente e apprezzabile, purché se ne capisca poco. Lo spiegone finale, per fortuna, è limitato.

Magic Magic di Sebastian Silva è un film fascinoso per lo stesso motivo: non tutto viene spiegato. Molto rimane non chiarito, ambiguo. Anzi, qui le nebbie aumentano con il passare del tempo. Alla fine una pesante caligine avvolge tutto. Certo, è un film riuscito a metà (come il precedente La nana), il "plot" non riesce a coinvolgere fino in fondo. Apprezzabile di Silva è, però, la capacità di costruire personaggi indimenticabili. La domestica di "La nana" non si scorda facilmente. Lo stesso capita per Alicia, la protagonista assoluta di Magic Magic, una tipa che, come direbbe Canetti, "fa quello che non vuole fino a quando lo vuole", un vero esempio di autodistruzione.